24 ore selvatiche: un giorno e una notte nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi

Avete mai provato a immergervi 24 ore in una foresta, trascorrendo un giorno e una notte in compagnia di alberi secolari e animali selvatici?
Qualche giorno fa, la foresta della Lama mi ha regalato un’esperienza indimenticabile. Circondata da montagne impervie e attraversata da numerosi torrenti, è una zona acquitrinosa (“lama” in latino vuol dire palude) con un’altissima biodiversità animale e vegetale, una delle porzioni più incontaminate del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. È raggiungibile solo a piedi, percorrendo in discesa ripidi sentieri, che vuol dire tanta fatica al ritorno, soprattutto se si hanno con sé due zaini strapieni di attrezzatura fotografica, cibo e materiale da bivacco. Sudore ben speso, ma occorre essere allenati e organizzati per godersi l’avventura senza trasformare un momento di pace in un supplizio. L’equipaggiamento può essere più o meno pesante, ma è fondamentale portare con sé due cose: buonsenso e rispetto. Siamo intrusi in casa d’altri, il nostro passaggio avrà comunque un impatto e limitarlo il più possibile deve essere in ogni momento la nostra principale preoccupazione.

Il sentiero parte da 1300 metri di quota e si snoda attraverso gole e cascate imponenti, in un ambiente dominato da alberi ad alto fusto tra cui spiccano conifere e ontani. Percorro seicento metri di dislivello in discesa carico come un mulo: so dell’esistenza di un piccolo rifugio in pietra, ma nel dubbio ho preferito portare con me la tenda. Le notti qui sono lunghe, fredde e molto umide. Il bivacco fortunatamente è aperto: è piccolo ed essenziale, ma confortevole e dotato di un bel camino. Il telefono non dà segni di vita, “nessun servizio” dice il display, nemmeno le chiamate di emergenza. La cosa non mi turba neanche un po’, anzi, mi aiuta a calarmi in una dimensione nuova, sottolineando il passaggio da un microcosmo artificiale di comodità e presunte certezze a un mondo più vasto e stimolante, dove la mia perenne inquietudine trova finalmente ristoro. Ogni pensiero superfluo scompare portandosi via tante ansie inutili, quando bisogni che normalmente consideriamo banali diventano necessità impellenti: procurarsi acqua potabile, nutrirsi, scaldarsi, mantenere alta la concentrazione per proteggere il proprio corpo da pericoli e infortuni.

Dopo aver raccolto un po’ di legna secca, prendo con me la macchina fotografica e mi tuffo nel bosco. Attivo udito e olfatto nella speranza di incontrare dei cervi in amore, ma rimango deluso: nessun bramito a rompere il silenzio né il forte e caratteristico odore, simile a quello di un caprone, che impregna l’aria laddove i maschi marcano il territorio per attirare le femmine e tenere alla larga i rivali. In compenso, saltano agli occhi indizi confortanti: tracce di passaggio nel sottobosco, orme e soprattutto escrementi, bussolotti scuri e compatti disseminati ovunque. Chinato a osservarli, non mi accorgo che qualcuno si avvicina e quando alzo la testa mi trovo una femmina di daino così vicina che entrambi facciamo un salto indietro spaventati. Cinque o sei esemplari, tutte femmine, si allontanano alla rinfusa guadando un ruscello fino a ristabilire la giusta distanza. Ritrovata compostezza ed eleganza, in fila indiana risalgono il pendio tenendomi d’occhio.

Trovata una radura stendo il telo mimetico e organizzo un appostamento tra i cespugli, con l’intenzione di restarci fino al tramonto. A farmi compagnia durante l’attesa, una coppia di lucherini intenti a setacciare erbe e arbusti in cerca di semi. Uccelletti slanciati e vivacemente colorati, i lucherini sono creature vispe, dal carattere timido ma piuttosto confidenti. Durante i loro voli, un po’ alla volta si avvicinano al mio nascondiglio divertendomi con picchiate e acrobazie. In questa specie maschio e femmina formano una coppia stabile e affiatata: partiti dal freddo Nord sono arrivati fin qui per svernare, ed è incredibile pensare che due creature così minute e apparentemente fragili abbiano appena compiuto una trasvolata di migliaia di chilometri, senza zaini, scorte di cibo o aggeggi elettronici a indicargli la via. Mi piace illudermi che la loro propensione a starmi vicino sia dovuta a una qualche forma di risonanza tra noi, ma il saccente demonietto della razionalità insiste nel suggerirmi che tutto ciò che li attira verso di me sia l’istintiva associazione “uomo = maggiore presenza di cibo”. Chissà, la vera essenze delle cose è sempre molto più complessa di ciò che sembra e in fondo è per questo che sono qui: affrancarmi almeno per qualche ora dai limiti imposti dal pensiero logico e lasciar vagare la mia anima tra i misteri del bosco, libera di cercare un’intimità con la vita che mi circonda, di sperimentare connessioni e aprirsi ad altre forme di introspezione e conoscenza.

Il tempo passa e di cervi nemmeno l’ombra, solo alcune femmine di daino sfilano in silenzio tra gli alberi, leggere e impalpabili come nuvole. Una giovane melanica dalla forma sottile percepisce il mio odore e si immobilizza, il mantello nero spicca tra l’erba alta e ingiallita e gli occhi sgranati sono puntati nei miei. Il suo sguardo è un biglietto di sola andata per l’Africa, per l’Alaska, per le steppe asiatiche; un viaggio nel tempo e nello spazio che risveglia millenni di ricordi. Mi chiedo cosa le rimarrà del nostro incontro, se qualche volta, rannicchiata in un giaciglio di terra e foglie, sognerà lo sguardo di una creatura misteriosa.

Non appena inizia a calare la luce mi avvio verso il rifugio e a pochi metri dalla radura che lo ospita mi attende una gradita sorpresa: un grosso daino bruca tranquillo i germogli ai margini della mulattiera. Lo vedo un attimo prima di inciampargli nel palco: l’abitudine di muovermi silenziosamente è servita, non si è accorto di niente. Scatto qualche fotografia approfittando della pozza di luce residua che illumina la radura, sperando che il clic dell’otturatore non lo metta in allarme. Fosse stata una femmina probabilmente mi avrebbe sentito prima ancora che io potessi vederla, ma con i maschi ho imparato che tutto è possibile, anche passare dieci minuti a pochi metri di distanza da un esemplare svagato, cercando goffamente di non fare rumore senza che lui se ne renda conto. Mentre il buio ci cola addosso penso a un modo per disimpegnarmi senza farmi notare, finché ci pensa qualcun altro a togliermi dall’impaccio. Alle mie spalle qualcosa di grosso si tuffa nel torrente, il daino alza la testa di scatto e in un attimo si dilegua. Mi domando perplesso quale creatura abbia deciso di farsi un bagno a quest’ora, ma chiunque sia la ringrazio per avermi risparmiato la responsabilità di mettere in fuga lo spensierato palancone.

Faccio ritorno al bivacco mentre la lampada lunare si arrampica sulle cime degli alberi spandendo nella notte la sua luce argentata, con la foresta che inizia a prendere vita risuonando di versi e fruscii. Accendo nel camino il primo fuoco dell’anno e consumo la mia cena in un’atmosfera incantata, ascoltando i bramiti che riecheggiano lontani tra le montagne. Stendo il sacco a pelo su tre tavolacce che ballano a ogni mio respiro, e dopo un paio d’ore di dormiveglia sono di nuovo in piedi: troppo forte è il richiamo della foresta. Il bosco di notte si trasforma, diventa un luogo affollato e violento; il regno dell’incertezza dove vita e morte vanno a braccetto come vecchie compari. Sopra la mia testa dei ghiri fanno un gran baccano, trasformando la chioma di un cerro in un ring a cielo aperto. Se le danno di santa ragione per conquistare le ultime ghiande da portare nel nido in vista dell’inverno e nemmeno il grido di caccia di un allocco, loro nemico giurato, sembra distrarli dalla contesa. Spengo la frontale e lascio che i miei occhi si abituino all’oscurità, tutt’intorno a me coppie di puntini gialli si muovono come fanali e mi scrutano curiosi. Sono occhi di cinghiali, caprioli, istrici, riconoscibili dall’andatura e dal modo in cui ondeggiano la testa. Una volpe si avvicina, pallida e spettrale, arriva a una quindicina di metri, poi infila il muso nell’erba e si allontana seguendo una traccia. Osservo la sua ombra muoversi nella radura in cerca di topi, circondata da altri fantasmi impegnati nella medesima caccia.

Accanto a me, sepolto sotto rovi e liane come un tempio dimenticato, il rudere di un antico casale evoca la tipica ambientazione da cinema horror: un cliché talmente banale che non fa nemmeno paura. Ciò che farebbe paura, se li sentissi per la prima volta, sono i bramiti cavernosi e possenti che di tanto in tanto rimbombano nella notte. Con il buio qualche cervo si è finalmente svegliato, ma è chiaro che la stagione degli amori non è ancora al suo culmine. Con il passare delle ore i loro canti si fanno più vicini e ruggenti e resto ad ascoltarli imbambolato nei pressi del bivacco, finché il mio corpo non mi chiede di sonnecchiare un paio d’ore accanto al fuoco. Nel rifugio non sono solo, a farmi compagnia c’è il grillo con le antenne più lunghe che io abbia mai visto. Un esserino così appariscente che al mio arrivo ho sperato mi parlasse, ma dopo avermi fissato per un po’ si è girato senza dire niente e si è infilato in un buco. Del resto, un vero saggio deve capirlo subito che a darmi consigli assennati perderebbe tempo. La notte poi mi sveglio con la sensazione che qualcosa mi stia camminando in testa, sento un fruscio a pochi centimetri dalla mia faccia e penso sia un topolino. Invece è sempre lui, il grillo non-parlante dalle lunghe antenne. Per evitare che dopo il letto domattina voglia condividere pure la colazione, senza peraltro degnarsi di scambiare due parole, lo accompagno fuori. E già che ci sono, resto fuori anch’io.
Rimango sveglio ad ascoltare i bramiti e al primo chiarore mi allontano per un nuovo appostamento. Credo di aver capito dove avvenga il passaggio dei daini, costretti a scendere dalla montagna per raggiungere il torrente e l’abbondanza vegetale che gli gravita intorno, per poi risalire il pendio all’alba e trascorrere appartati le ore del giorno. Per arrivarci devo scarpinare in salita, fuori sentiero su un terreno aspro e imprevedibile, schivando burroni e scavalcando scheletri di giganti caduti. Ancora una volta i miei sforzi vengono premiati: i daini sono esattamente là dove mi aspettavo di trovarli. Un gruppetto di femmine si muove nella macchia, scattare foto è quasi impossibile e rischierei di spaventarle, così mi rilasso e mi godo la magia del momento. Il solo fatto che queste creature esistano mi rende estatico, senza che sappia spiegarmi di preciso il perché: un pensiero fatto di parole è uno strumento troppo elaborato per esprimere un senso di comunione così primordiale e assoluto.

Torno al bivacco con l’animo sereno, faccio colazione scaldando pane e caffè sulla brace fumante, poi raccolgo le mie cose e mi incammino per risalire al passo. Seicento metri di dislivello, stavolta in salita, con qualche tratto esposto reso scivoloso dall’umidità, uno zaino davanti e uno dietro a segarmi le spalle. Sto così bene che la fatica non la sento nemmeno.

Al ritmo delle stagioni
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