Dal capitolo “Una nuova vita”
Era l’aprile del 2015 quando spegnevamo le luci della mansarda in periferia di Roma, caricavamo la piccola Citroen fino a farla scoppiare e ci mettevamo in marcia che era ancora buio per un lungo, lunghissimo viaggio. Destinazione Valle Maira, provincia di Cuneo.
Quasi dieci ore di pellegrinaggio, seicento interminabili minuti scanditi uno per uno dai miagolii di protesta di Camilo e Remedios. I nostri gatti, chiusi in un gigantesco trasportino sul sedile posteriore dell’auto, proprio non mandavano giù quel trasloco forzato. Allergici ai cambiamenti e allarmati da qualsiasi novità, si sarebbero aggrappati con le unghie alle loro vecchie abitudini nonostante conducessero una vita monotona e noiosa, confinati in un ambiente artificiale e povero di stimoli che si traduceva in tic nervosi e deliranti ossessioni comportamentali. Per una vita di infelicità e disagio avrebbero lottato fino alla morte.
Quante persone fanno lo stesso, si aggrappano alla certezza di una familiare disperazione e finiscono per difenderla e apprezzarla pur di non affrontare la paura del nuovo? Quante volte il cambiamento ci terrorizza bloccando la volontà di agire e impedendoci di valutare serenamente le opportunità? […]
Manca poco all’alba quando usciamo dal Grande Raccordo Anulare, il lungo serpente di asfalto che abbraccia Roma stritolandola in una morsa di smog e malumore. La rampa autostradale sale su, arrotolandosi su sé stessa finché sembra di tornare al punto di partenza. Dall’alto la vista si allarga su un groviglio di strade, viadotti e giganteschi capannoni industriali. A perdita d’occhio. Nonostante l’ora il traffico è già intenso. Piccoli e grandi cubi colorati sfrecciano in tutte le direzioni rompendo la grigia monotonia. Una ciminiera al lavoro giorno e notte sputa nell’aria nubi di vapore bianche e dense come panna montata.
Un tir ci sorpassa strombazzando e mi fa quasi sbandare per lo spavento. I gatti per un momento ammutoliscono. Alessia mi lancia un’occhiataccia. Quando rallenti troppo la pena è il sorpasso, e io non sono mai stato un gran velocista. Se cambiare spaventa, a volte restare fa ancora più paura.
Mi concentro sulla guida, ma mentre ci allontaniamo dalla città lancio un ultimo sguardo nello specchietto retrovisore. Una folata di vento fa ondeggiare il pennacchio di fumo della ciminiera in qualcosa che assomiglia a un grottesco saluto. Sullo sfondo, strade e palazzi si schiacciano fino a diventare una linea piatta e incolore.
Sembra che quel sapientone di Einstein una volta abbia detto: “la logica vi porterà da A a B, l’immaginazione vi porterà dappertutto”. Mi chiedo se andare da A a B debba per forza essere sinonimo di noia e disillusione, se non esista un modo di viaggiare tenendo una ruota su entrambi i binari, quello della logica e quello dell’immaginazione.
Davanti a noi il sole si sta affacciando sull’orizzonte. Con un sospiro diciamo addio a tutte le certezze e imbocchiamo la strada che porta verso il nuovo giorno. […]
Dal capitolo “Zappando si impara”
Seminare a spaglio, così c’è scritto sulla bustina.
Bene, sembra facile. A spaglio. In un recesso della mia mente scorre la sequenza di un braccio che si piega e poi scatta come una molla, le dita della mano si schiudono e lasciano andare il contenuto. Come facevo da bambino, al parco, quando tiravo una manciata di coriandoli. Perfetto, dunque. Procedo con lo spaglio. Pugno di semini chiusi nel palmo della mano. Li sento premere sulla pelle. Mamma mia come sono piccoli questi semi. Ne avrò centinaia nella mano. In effetti… non saranno troppi? Che poi, per quanto ne so, potrebbero anche essere troppo pochi. E a pensarci bene, spesso al parco i coriandoli mi tornavano in faccia.
Poche storie. Mi preparo a compiere il gesto. Distendo il braccio, piego il gomito verso l’interno. Il muscolo è teso, pronto a scattare. La terra smossa mi guarda impaziente. Aspetta a braccia aperte la mia benedizione.
– Allora che faccio, spaglio?
Alessia mi guarda perplessa: – Certo, che aspetti?
– Ok. Ma, secondo te, quanto devo spagliar… spargerli? – accenno con la mano libera a misurare la lunghezza del bancale, un rettangolo scuro di terra viva che spicca tra il verde brillante del prato.
Lei risponde con un gesto vago: – Ma… così, ne butti un po’. Dai.
Ci penso su, fissando il bancale con lo stesso sguardo inebetito dei primi archeologi di fronte alla stele di Rosetta. Seminare a spaglio. Detta così sembra facile. Sparpagliare qua e là in abbondanza; gettare il seme a manciate sul terreno smosso. Così recita il vocabolario. Va bene, ma “quanta” abbondanza? E qua e là “quanto”? In poche parole, quanti semini più o meno per ogni metro quadro di terra? Cerco di risolvere il problema con approccio scientifico. Un metro quadro di terra fratto il numero totale di semini, diviso cento.
Mi volto di nuovo verso Alessia: – Ma un po’ quanti?
– Quanto pensi di andare avanti? – Alessia mette le mani sui fianchi. Sorride.
– Fallo te, allora – approfitto del suo assist, fingendo astutamente di essermi offeso per scaricarle la patata bollente. Ed è lei, come sempre succede quando io attivo la modalità «bambino lagnoso», a trovare la soluzione.
– Chiamo Monica, lo chiedo a lei.
Monica è molto più di una vicina di casa. È il nostro angelo custode.
– Monica, mi ricevi? Abbiamo un problema. No, direi che non è grave. Stiamo seminando l’insalata e… ecco, ci chiedevamo quanti semini dovremmo spargere sul bancale. Più o meno.
Dall’altra parte un momento di silenzio, poi un rapido fiume di parole. Mi arriva qualcosa all’orecchio. Piantine… tante… diradare… tranquilli. Alessia ringrazia, saluta, mette via il telefono. Mi guarda, divertita: – Dai, su. Lanciane un po’.
Sospiro. Guardo la terra nuda e profumata davanti a me. I raggi obliqui del sole la colorano di arancio. Tra poco fa notte. Chissà com’è stato, da bambini, gettare una manciata di coriandoli per la prima volta. Mi faccio coraggio. Lancio.
Un movimento impacciato, un po’ troppo teatrale. Resto imbambolato con il braccio teso e il palmo aperto rivolto verso l’alto. Sembro Cicerone durante un’oratoria, o un attore che recita Shakespeare. Immaginavo di vedere i semi fluttuare nell’aria, scintillanti nella luce del tardo pomeriggio, e ricadere con dolcezza disegnando arabeschi dorati sulla terra scura. Niente di tutto ciò. Colgo appena una manciata di polvere nera che si disperde, poi più nulla. Non capisco neanche bene dove li ho tirati. Mi gratto la testa. Guardo Alessia, sorrido. Penso che il giorno che vedremo spuntare i germogli delle insalate sarà davvero come assistere a un miracolo.
Coltivare un orto è un atto di liberazione. Diventare indipendenti nella fornitura di cibo per il proprio sostentamento significa rendersi fisicamente e mentalmente liberi. Non è un modo di dire: mangiare è la necessità più impellente di ogni essere vivente. Il cibo è l’unica cosa di cui non possiamo fare a meno per vivere e nel momento in cui smettiamo di produrlo con le nostre mani diventiamo dipendenti da ciò che utilizziamo per procurarcelo: il denaro. Invertendo il processo, tornando a produrre, possiamo un po’ alla volta allentare le catene che ci rendono schiavi del bisogno di soldi. Cosa che, alla fine, si traduce in più tempo a disposizione per vivere la nostra vita.
I vantaggi che derivano dal lavorare in proprio un pezzetto di terra sono innegabili e così numerosi che non è facile elencarli senza dimenticarne qualcuno. Il più ovvio e immediato è il salto di qualità della propria alimentazione. Zero chimica, zero genetica, prodotti sempre freschi o congelati immediatamente dopo il raccolto. Smettiamo di ingerire sostanze tossiche e quello che mangiamo, oltre che incredibilmente più gustoso, è più salutare e nutriente. La soddisfazione data dal cucinare e consumare qualcosa nato dalle proprie mani e accompagnato nei mesi dello sviluppo è enorme, e chiunque abbia mai provato sa bene di cosa parliamo. Da un punto di vista etico poi, comunque ci si comporti abitualmente, non può che far piacere sapere di non aver contribuito all’emissione di gas serra con l’astensione dall’acquisto e dal consumo di cibi prodotti in serra o finiti nelle nostre bocche dopo lunghi viaggi intercontinentali.
Zappare, vangare, arare, dissodare, diserbare a mano, sono tutti esercizi che liberano la mente e temprano il fisico meglio di qualunque palestra. Sono attività che ci permettono di passare del tempo all’aria aperta, sotto la luce del sole e a stretto contatto con la natura, piuttosto che confinati in maleodoranti scantinati illuminati al neon, stipati di attrezzi che sembrano strumenti di tortura di inquisitori medievali e pieni di narcisi sudati che si guardano di nascosto allo specchio, perdutamente innamorati dei propri muscoli. Come se non bastasse, mentre frequentare una palestra costa (e neanche poco) coltivare, al contrario, è un’occupazione che genera reddito.
Oltre che i muscoli alleniamo la mente: la cura delle piante è una forma particolare di esercizio zen, che libera dallo stress e abitua alla pazienza, alla devozione e all’attesa. Una pratica che ci fa entrare in comunione con la terra e con i suoi ritmi, permettendoci di ritrovare il benessere psico-fisico che deriva da un sano e continuativo rapporto con la natura. […]
Dal capitolo “Artigianato: la libertà del saper fare”
[…] La prima volta che ho realizzato un cesto, sono rimasto folgorato dal constatare cosa potevano essere in grado di creare le mie dita a partire da materie così semplici e da poche, elementari, tecniche di base. Nonostante usassi le mani da trent’anni per disegnare e dipingere, non ero mai stato veramente consapevole della possibilità di realizzare oggetti solidi, concreti. Avevo sempre pensato di essere negato per i lavori manuali e dato per scontato che si trattasse di una di quelle abilità distribuite casualmente prima della nascita, senza un apparente criterio di equità: a chi troppo e a chi niente. Io, ovviamente, figuravo tra gli esclusi. Poi, un bel giorno, mentre in pochi passaggi il mio cervello imparava a coordinare i movimenti delle dita in modo efficiente e, sotto la guida gentile di Sergio, una dopo l’altra le trame dell’intreccio si componevano davanti ai miei occhi, mi sono reso conto di qual era stato, fino a quel momento, il mio reale problema: non aver mai provato.
Se da un lato è sconcertante come l’istruzione in Italia presenti una lacuna così macroscopica, dall’altro la cosa non stupisce più di tanto. La manualità, intesa come capacità di saper fare con le proprie mani, è alla base dell’autosufficienza, probabilmente l’ultima preoccupazione di un sistema formativo che, al contrario, si impegna sempre più a crescere individui fisicamente e mentalmente dipendenti. Dipendenti dai lavori da dipendenti, se mi passate il gioco di parole, e dipendenti dagli acquisti per rifornirsi di ciò che non sono in grado di procurarsi o costruirsi da soli: praticamente tutto.
Le tecniche produttive industriali poi, con l’invenzione della catena di montaggio, hanno fatto sì che la manualità ancora necessaria – pochi gesti sempre uguali da ripetere all’infinito – non fosse più utile a nulla all’infuori della catena di montaggio stessa. In fabbrica l’artigiano diventa operaio: non è più l’uomo a produrre l’oggetto finale, ma una sequenza ben definita di macchine ed esseri umani-automi. L’unica cosa che può ancora produrre l’operaio è il proprio stipendio, condizione che lo incatena ai capricci del sistema economico.
Riacquistare le abilità manuali significa recuperare un altro pezzetto dell’indipendenza che ci è stata sottratta per trasformarci in lavoratori e consumatori passivi. Vuol dire allenare il cervello così come la nostra specie ha fatto per millenni, confrontandosi con la materialità dell’esistenza senza limitarsi alle astrazioni di un mondo sempre più informatizzato. Via via che progrediscono, capacità e competenze possono schiuderci possibilità neanche immaginate fino al giorno prima e offrirci bocconi sempre più grossi di libertà. «Creare è dare una forma al proprio destino», scriveva Camus; chissà allora, partendo da un cesto, dove si può arrivare. Se nel neolitico saper costruire qualcosa con le proprie mani era una questione di sopravvivenza, oggi potrebbe rappresentare un primo passo per non limitarsi più alla sopravvivenza, e iniziare a vivere. […]