Maltempo… o malterritorio?

“Questo non è maltempo, è malterritorio”.
È facile parlare di fenomeni eccezionali, ma qui di eccezionale c’è soprattutto la miopia di chi da decenni ci sta trascinando nel baratro, e i veri fenomeni sono i politici — tutti, nessuno escluso (Bonaccini docet) — che mentre tendono una mano agli sfollati con l’altra continuano a foraggiare nell’ombra l’imprenditoria rapace che sta causando tutto questo.

La crisi climatica avrà pure accentuato l’intensità di certi eventi atmosferici, ma è grottesco il modo in cui viene invocata sempre e solo quando fa comodo, usandola come paravento per nascondere responsabilità e mancanze, e addirittura come scusa per continuare a fare come si è sempre fatto, semplicemente colorando di verde speculazioni e grandi affari.

Le alluvioni che in questi giorni hanno colpito l’Emilia-Romagna (la terza regione più cementificata d’Italia e la terza per incremento del consumo di suolo), così come la maggior parte degli eventi catastrofici che hanno flagellato il Paese negli ultimi anni, hanno cause precise che sono sotto gli occhi di tutti: cementificazione ed edilizia selvaggia, mancanza di cura e di prevenzione, abbandono e sfruttamento scriteriato dei territori rurali con conseguente dissesto idrogeologico, totale disprezzo per ogni forma di tutela della cultura contadina e degli ecosistemi e, dulcis in fundo, l’ipocrisia della transizione ecologica, sponsorizzata a gran voce dagli stessi grandi gruppi industriali che finora hanno inquinato e depredato, l’ultima cinica trovata del turbocapitalismo creativo per continuare a estrarre valore dalla terra a danno di tutti e a vantaggio di pochi.

Tutti oggi piangono lacrime di coccodrillo per l’Apocalisse d’acqua venuta giù dalle montagne, ma nessuno piange per le piccole e grandi apocalissi che si abbattono ogni giorno sulle montagne fino a sgretolarle, della miriade di speculazioni private realizzate spesso con capitali pubblici, mascherate da opere di rinnovamento e di carità collettiva, orchestrate nell’ombra da quattro gatti e poi calate con arroganza in faccia alle comunità contro il parere di tutto e tutti, alla faccia della democrazia e dei geologi, che in Italia, uno dei paesi geologicamente più complessi del mondo, ferito da terremoti e alluvioni un giorno sì e l’altro pure, contano da sempre come il due di picche (la parola Vajont vi ricorda qualcosa?).

Tutti oggi parlano di primavera folle, TG e giornali elencano una per una le trecento frane che in poche ore hanno devastato l’Appennino tosco-emiliano e tosco-romagnolo, ma nessuno (nessuno!) parla di quanto siano folli i mastodontici progetti di colonialismo energetico che da anni insistono su quest’area, e che proprio in questi mesi stanno spuntando come funghi con l’obiettivo di trasformare queste montagne fragili e dissestate in uno dei parchi eolici più grandi d’Europa.


Nessuno parla di quanto sia folle l’idea di impiantare decine di torri da qui al Mugello, pale alte come grattacieli di 60 piani, con corredo di nuove strade, colate di cemento, cavi, tralicci, centrali, disboscamenti e sbancamenti vari, su crinali barcollanti che già adesso non reggono l’urto di due giorni di pioggia, portando ulteriore abbandono e provocando il definitivo collasso di un’area i cui singhiozzi non colpiranno solo le montagne e i montanari ma anche e soprattutto chi sta a valle.

Tutti oggi parlano di clima malato, ma nessuno ha il coraggio di dire quanto sia malato un modello di sviluppo sempre uguale a se stesso, criminale e recidivo, incentrato sull’idea folle e bugiarda di continuare a consumare come forsennati, ma in modo “ecologico” e “sostenibile”.

Tutti oggi parlano del clima che ci tiene in ostaggio, ma nessuno parla della burocrazia che tiene in ostaggio ogni possibile rinascita della montagna e di chi se ne prende cura. Nessuno parla di come sia sempre più difficile fare l’agricoltore, l’artigiano, il pastore, di quanto sia difficile investire la propria vita in luoghi dove non ti è concesso mettere un pannello fotovoltaico sul tetto o costruire un fienile perché impattano sul paesaggio, salvo poi vederti costruire in testa, da un giorno all’altro, un metanodotto, una diga, una strada, un parco eolico, un traforo, un allevamento intensivo, una funivia.

Tutti oggi parlano e si disperano, ma nessuno ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e di dire le cose come stanno. Oggi in Appennino ha smesso di piovere, ma non per questo cesserà di colare giù fango. Le montagne non smetteranno di franare a valle finché non avremo il coraggio di gridare che il re è nudo e che la terra si sta sgretolando non per colpa della pioggia ma per colpa della nostra arroganza, sotto i colpi incessanti dell’incuria e dello sfruttamento.

Al ritmo delle stagioni
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