Braccata al cinghiale a pochi metri da casa

Sono nel bosco armato fino ai denti: fotocamera, videocamera, cavalletti. La luce è tiepida, radente, splendido il contrasto tra il verde che persiste sui rami e i colori caldi che già invadono il sottobosco. Cerco le inquadrature giuste per raccontare l’autunno, litigando con Virgola che mi rovina le scene e prestando un occhio alle radure velate di nebbia: è più che mai frequente, ora che il periodo del bramito è al suo culmine, incrociare il proprio cammino con il palco di un daino in cerca d’amore. Anche se, in questi giorni di mattanza che qualcuno ha il coraggio di chiamare “sport”, ciò che gli animali troveranno è il più delle volte la morte. Mi sforzo, per quanto possibile, di non pensare agli spari che echeggiano ovunque intorno a me, tra le montagne trasformate in campo di battaglia. Mi sento relativamente al sicuro, perché la zona in cui mi trovo è solitamente interdetta alla caccia. Ma il disagio è grande, quasi cancella la meraviglia che mi circonda. Ogni volta che in lontananza sento le urla feroci degli uomini e i grugniti strazianti dei cinghiali, mi stupisco di come i secondi appaiano infinitamente più umani delle prime.

Mi allerto quando percepisco il rombo di un motore dal folto della macchia. Il rumore cresce d’intensità, poi un pick-up mi passa vicino, quasi mi sfiora ma l’autista nemmeno mi vede e prosegue spedito per la mulattiera che porta al paese. Nello stesso momento mi accorgo che qualcosa non va, ma è già troppo tardi: grida, spari, latrati sono ormai vicinissimi, stringono verso di me da ogni direzione, come un’ondata di panico che travolge ogni cosa. Raccolgo immediatamente il materiale, chiamo Virgola, le ordino di camminare al mio fianco e prendo a correre verso casa, urlando forte per farmi sentire dai cacciatori. I latrati dei cani sono ovunque e sovrastano qualsiasi suono, sembra che il bosco stesso abbia preso vita, anche se, per assurdo, quello che risuona è un lugubre canto di morte. Pochi minuti e vedo il pick-up fermo, a bordo non c’è nessuno. Qualche metro più là il cartello che vieta di proseguire oltre, di andare cioè proprio dove io mi trovavo fino a un attimo fa. Alzo lo sguardo verso il profilo del campanile che sbuca tra gli alberi, ed è così che un sabato mattina di ottobre scopro, al momento cruciale, che la braccata al cinghiale sta passando a cento metri da casa mia.

Possibile che nessuno ci abbia avvisati? Quel cartello, non potevano metterlo prima? Con tutti gli strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione, davvero non c’è modo di avvertire i residenti con un po’ di anticipo, quando hai deciso di scatenargli la guerra dentro casa? Le guerre: persino quelle hanno gli ultimatum, gli avvisi ai civili perché si mettano al sicuro. Questa barbarie no, te la ritrovi a sorpresa, senza nemmeno una dichiarazione ufficiale, un dispaccio consegnato all’ambasciata. E sei tu che devi chiedere il permesso, e se hai la sfortuna di ritrovarti in trincea dovrai correre e gridare per uscirne illeso, per non finire sui giornali, a ingrassare i bollettini di quelli che chiamano senza un briciolo di vergogna “incidenti”. Virgola è letteralmente nel panico, le orecchie basse e la coda tra le gambe, mi fissa spaventata cercando da me spiegazioni che non so darle. Sono quattro anni che vivo la natura di giorno e di notte, a stretto contatto con lupi, cinghiali, calabroni, serpenti, scorpioni e non ho mai avuto davvero paura. Mai, nemmeno una volta. Finora. Mi guardo le mani, sto tremando.

Torno a casa, profondamente disgustato e scosso, ma se non altro illeso. Non è certo così che mi aspettavo finisse la mia passeggiata mattutina nel bosco, quel momento che mi concedo per caricarmi, per affrontare la giornata nel modo giusto. E pensare che poteva andar peggio. Molto peggio. Siamo qui a parlare di ripopolamento delle montagne, di salvaguardia ambientale, di rinascita dei territori, di turismo sostenibile, di futuro, di nuovi residenti. Ma tutto questo – l’impegno, le idee, i progetti – resterà sempre utopia se la società cosiddetta “civile” non si deciderà a imporre delle regole, delle regole vere, e se non troverà il modo di fermare questa follia senza senso, la follia di pochi che preclude la vita a molti. Non solo alle centinaia di vittime umane, ai selvatici altrettanto innocenti o ai finti-selvatici allevati in gabbia e liberati nel bosco come surrogato di qualcosa che non esiste più, ma a chiunque abbia il semplice desiderio di apprezzare la pace, di abitare un luogo e custodirlo nella speranza di vederlo vivere e rifiorire. Senza poter più sopportare chi si ostina a voler distruggere fino in fondo quel poco di bello che è rimasto.

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