“Non sono sparito Magò, sono soltanto molto piccolo”

Certo che a pensarci tutto questo è davvero assurdo. L’uomo – creatura tanto umile da definirsi “sapiente” – distrugge il pianeta che tra le altre cose è la sua casa, lo distrugge in nome di una smania che l’economia chiama progresso, lo brucia, lo divora. Gli toglie l’aria.
E quell’ecosistema immenso che è la vita sulla Terra – miliardi e miliardi di connessioni di cui conosciamo le briciole -, quel raffinato collage di miracoli, meraviglioso e perfetto, cosa ti combina sul più bello, proprio quando le cose si stanno mettendo male? Tira fuori dal cilindro un’astuzia da circo, un colpo di scena, una perversa diavoleria.

Un cosa apparentemente insignificante, minuscola, microscopica, così piccola che è difficile anche solo pensarla. Invisibile quasi, ma dannatamente furba. “Non sono sparito Magò, sono soltanto molto piccolo”. Piccolo e banale, misero automa ottuso, organismo ai margini della vita. Più che un vivente, un’informazione genetica. Una stringa di caratteri su sfondo rosso. Un messaggio. Una breaking news. Annuncio difficile da fraintendere, così perentorio che lascia tutti sgomenti, senza parole. E senz’aria, letteralmente. Quell’aria che abbiamo ammorbato per anni, e che ora si rifiuta di entrarci nei polmoni. “Sono soltanto molto piccolo. E tu mi hai preso, Magò”.

Dio, ma è davvero possibile? Non mi sono addormentato guardando Netflix? Non è un romanzo di Philip Dick, o un passo di qualche testo sacro? Si fa fatica a restare razionali, a non vedere in tutto questo una trama, una sceneggiatura. La profezia di Merlino. L’ultimatum urlato con sdegno dai piani superiori. Un messaggio di poche righe, spietato al punto giusto: il pizzino di un dio criminale. La sentenza di un giudice troppo crudele (o finalmente giusto?). Poche righe, capaci di sconvolgere tutto ciò che siamo. Capaci di metterci alla prova, di spogliarci, di sfidare ogni nostra certezza.

Ecco, se questa è una sfida, una prova da superare, una partita da vincere insieme, io adesso, guardandomi intorno, posando lo sguardo sul resto del mondo “civile”, sul suo monotono e scriteriato galoppo, mi sento come se il giorno della finale fossi finito a giocare in una squadra di schiappe. Un team di presuntuosi dove ognuno gioca per conto suo, con le sue regole e per la propria bandiera. Squadra di sedicenti fenomeni che non passano mai la palla, e corrono corrono, così invasati da non fermarsi nemmeno quando l’arbitro fischia. Nemmeno quand’è finito il campo.

E anche adesso che il pubblico non c’è più, nel silenzio attonito di uno stadio deserto, come pazzi continuano a correre, in un turbinio frenetico, senza sapersi fermare. Ingabbiati dalle loro stesse ossessioni, parlano ancora di schemi, di moduli, di tagli, di correzioni. Imperterriti continuano a fare gol, ma nella porta sbagliata. E da bravi ragionieri tengono il conto, tutto in una stessa colonna: gol, autogol, che differenza fa? Quello che conta è che il punteggio continui a crescere. All’infinito. Gol e autogol. Dice che serviranno – in un futuro ipotetico – per far risalire il PIL.

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