Ciao Daniele

Questi giorni di festa sono stati segnati da una notizia straziante: la scomparsa improvvisa di Daniele, montanaro, uomo libero e pastore del Matese, titolare, insieme a Maria, dell’Azienda Agricola la pecorella nera.
L’orgoglio e la passione con cui Daniele parlava del suo lavoro, le pecore considerate parte della famiglia, i formaggi, la masseria di montagna che è insieme casa, laboratorio e museo contadino, i suoi racconti e l’accoglienza ricevuta sono ricordi preziosi che conserverò con cura.

Non ho parole per esprimere la tristezza e il dispiacere, né per descrivere l’entità della perdita umana e il vuoto che Daniele lascia nel territorio e nella cultura dell’Appennino. Ma voglio almeno provare a condividere l’allegria e il piacere che ho sentito nel conoscerlo, attraverso il breve racconto del nostro incontro.

«“Da sempre”, infine, mi rispondono anche Daniele e Maria, titolari dell’azienda agricola La Pecorella Nera, quando gli chiedo da quant’è che le loro famiglie allevano pecore in alta montagna. Pastori e casari da generazioni, da metà maggio a inizio ottobre portano il loro gregge a pascolare quassù, a 1200 metri di quota, e si trasferiscono a vivere in una masseria che mi lascia senza parole. Più che un’abitazione, si tratta di una casa-museo della civiltà contadina, affollata di oggetti e strumenti di ogni epoca. È però anche un luogo vissuto, e Daniele e Maria ce lo dimostrano come si usa da queste parti: tappandoci la bocca. Governata la stalla con perfetta coordinazione, lui alla mungitura e lei alla lavorazione del latte, ci invitano nella casa-museo e ci scodellano davanti ogni tipo di prelibatezza: cremosi tomini profumati d’alpeggio, formaggi stagionati, un originale salame di pecora e salsicce di fegato per palati audaci. Siamo seduti su minuscoli sgabelli in legno, intorno a un tavolino lillipuziano, e per contrappasso le scodelle di coccio e le caraffe di vino che attaccano a servirci sono piene fino all’orlo. Daniele, tra una portata e l’altra, ci racconta di come il padre si vergognasse di essere un pastore, mentre lui al contrario ne va fiero, è orgoglioso delle sue pecore e felice della vita che fa. Poi ci intrattiene con un lungo discorso sul commercio degli arieti e sulla storia di un’antica razza locale, la pecora pagliarola, che dopo una lunga e vana ricerca sembra purtroppo estinta. Sono rapito dal cibo e dalla miriade di oggetti curiosi presenti nella stanza, appesi alle pareti e alle travi del soffitto fino a coprire ogni centimetro di superficie. Setacci, paioli, campanacci, collari di legno per pecore, collari anti-lupo per cani (una sorta di accessorio punk irto di spuntoni) e ancora enormi grattugie, rastrelli, cesti, damigiane, indumenti tradizionali simili a quelli visti a Campotosto e una serie di strumenti così lontani dal mio vissuto che non riesco a immaginarne nemmeno vagamente la funzione. Satolli e quasi ubriachi, io e Ivan riusciamo a sganciarci solo dopo il caffè e due o tre bicchierini di liquore, quando l’orologio segna ormai… le undici di mattina!»

Mi stringo con affetto a Maria, alla famiglia, alle comunità di Roccamandolfi e Macchiagodena, agli amici di Daniele e a chi, come me, ha avuto la fortuna di sfiorarlo lungo il cammino.

Al ritmo delle stagioni
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