Zappando si impara

Aspettiamo con trepidazione che passi l’ondata di maltempo per tornare a lavorare la terra. Coltivare un orto è un atto di liberazione, consumarne i frutti una soddisfazione materiale e spirituale.

Nell’attesa, pubblichiamo un breve estratto dal nostro libro, l’incipit del capitolo “Zappando si impara”. Proprio in questi giorni la prima parte del libro sarà finalmente affidata ai revisori… inutile dire che siamo molti emozionati

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Seminare a spaglio, così c’è scritto sulla bustina. Bene, sembra facile. A spaglio. In un recesso della mia mente scorre la sequenza di un braccio che si piega e poi scatta come una molla, le dita della mano si schiudono e lasciano andare il contenuto. Come facevo da bambino, al parco, quando tiravo una manciata di coriandoli. Perfetto, dunque. Procedo con lo spaglio. Pugno di semini chiusi nel palmo della mano. Li sento premere sulla pelle. Mamma mia come sono piccoli questi semi. Ne avrò centinaia nella mano. In effetti… non saranno troppi? Che poi, per quanto ne so, potrebbero anche essere troppo pochi. E a pensarci bene, spesso al parco i coriandoli mi tornavano in faccia. Poche storie. Mi preparo a compiere il gesto. Distendo il braccio, piego il gomito verso l’interno. Il muscolo è teso, pronto a scattare. La terra smossa mi guarda impaziente. Aspetta a braccia aperte la mia benedizione. – Allora che faccio, spaglio? Alessia mi guarda perplessa: – Certo, che aspetti? – Ok. Ma, secondo te, quanto devo spagliar… spargerli? – accenno con la mano libera a misurare la lunghezza del bancale, un rettangolo scuro di terra viva che spicca tra il verde brillante del prato. Lei risponde con un gesto vago: – Ma… così, ne butti un po’. Dai. Ci penso su, fissando il bancale con lo stesso sguardo inebetito dei primi archeologi di fronte alla stele di Rosetta. Seminare a spaglio. Detta così sembra facile. Sparpagliare qua e là in abbondanza; gettare il seme a manciate sul terreno smosso. Così recita il vocabolario. Va bene, ma “quanta” abbondanza? E qua e là “quanto”? In poche parole, quanti semini più o meno per ogni metro quadro di terra? Cerco di risolvere il problema con approccio scientifico. Un metro quadro di terra fratto il numero totale di semini, diviso cento. Mi volto di nuovo verso Alessia: – Ma un po’ quanti? – Quanto pensi di andare avanti? – Alessia mette le mani sui fianchi. Sorride. – Fallo te, allora – approfitto del suo assist, fingendo astutamente di essermi offeso per scaricarle la patata bollente. Ed è lei, come sempre succede quando io attivo la modalità «bambino lagnoso», a trovare la soluzione. – Chiamo Monica, lo chiedo a lei. Monica è molto più di una vicina di casa. È il nostro angelo custode. – Monica, mi ricevi? Abbiamo un problema. No, direi che non è grave. Stiamo seminando l’insalata e… ecco, ci chiedevamo quanti semini dovremmo spargere sul bancale. Più o meno. Dall’altra parte un momento di silenzio, poi un rapido fiume di parole. Mi arriva qualcosa all’orecchio. Piantine… tante… diradare… tranquilli. Alessia ringrazia, saluta, mette via il telefono. Mi guarda, divertita: – Dai, su. Lanciane un po’. Sospiro. Guardo la terra nuda e profumata davanti a me. I raggi obliqui del sole la colorano di arancio. Tra poco fa notte. Chissà com’è stato, da bambini, gettare una manciata di coriandoli per la prima volta. Mi faccio coraggio. Lancio. Un movimento impacciato, un po’ troppo teatrale. Resto imbambolato con il braccio teso e il palmo aperto rivolto verso l’alto. Sembro Cicerone durante un’oratoria, o un attore che recita Shakespeare. Immaginavo di vedere i semi fluttuare nell’aria, scintillanti nella luce del tardo pomeriggio, e ricadere con dolcezza disegnando arabeschi dorati sulla terra scura. Niente di tutto ciò. Colgo appena una manciata di polvere nera che si disperde, poi più nulla. Non capisco neanche bene dove li ho tirati. Mi gratto la testa. Guardo Alessia, sorrido. Penso che il giorno che vedremo spuntare i germogli delle insalate sarà davvero come assistere a un miracolo.

Coltivare un orto è un atto di liberazione. Diventare indipendenti nella fornitura di cibo per il proprio sostentamento significa rendersi fisicamente e mentalmente liberi. Non è un modo di dire: mangiare è la necessità più impellente di ogni essere vivente. Il cibo è l’unica cosa di cui non possiamo fare a meno per vivere e nel momento in cui smettiamo di produrlo con le nostre mani diventiamo dipendenti da ciò che utilizziamo per procurarcelo: il denaro. Invertendo il processo, tornando a produrre, possiamo un po’ alla volta allentare le catene che ci rendono schiavi del bisogno di soldi. Cosa che, alla fine, si traduce in più tempo a disposizione per vivere la nostra vita. I vantaggi che derivano dal lavorare in proprio un pezzetto di terra sono innegabili e così numerosi che non è facile elencarli senza dimenticarne qualcuno. Il più ovvio e immediato è il salto di qualità della propria alimentazione. Zero chimica, zero genetica, prodotti sempre freschi o congelati immediatamente dopo il raccolto. Smettiamo di ingerire sostanze tossiche e quello che mangiamo, oltre che incredibilmente più gustoso, è più salutare e nutriente. La soddisfazione data dal cucinare e consumare qualcosa nato dalle proprie mani e accompagnato nei mesi dello sviluppo è enorme, e chiunque abbia mai provato sa bene di cosa parliamo. Da un punto di vista etico poi, comunque ci si comporti abitualmente, non può che far piacere sapere di non aver contribuito all’emissione di gas serra con l’astensione dall’acquisto e dal consumo di cibi prodotti in serra o finiti nelle nostre bocche dopo lunghi viaggi intercontinentali. Zappare, vangare, arare, dissodare, diserbare a mano, sono tutti esercizi che liberano la mente e temprano il fisico meglio di qualunque palestra. Sono attività che ci permettono di passare del tempo all’aria aperta, sotto la luce del sole e a stretto contatto con la natura, piuttosto che confinati in maleodoranti scantinati illuminati al neon, stipati di attrezzi che sembrano strumenti di tortura di inquisitori medievali e pieni di narcisi sudati che si guardano di nascosto allo specchio, perdutamente innamorati dei propri muscoli. Come se non bastasse, mentre frequentare una palestra costa (e neanche poco) coltivare, al contrario, è un’occupazione che genera reddito. Oltre che i muscoli alleniamo la mente: la cura delle piante è una forma particolare di esercizio zen, che libera dallo stress e abitua alla pazienza, alla devozione e all’attesa. Una pratica che ci fa entrare in comunione con la terra e con i suoi ritmi, permettendoci di ritrovare il benessere psico-fisico che deriva da un sano e continuativo rapporto con la natura. (…)

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