Nella morsa del gelo

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Una delle più grandi (e concrete) paure di chi vive in montagna è ritrovarsi senz’acqua in casa in pieno inverno, quando le temperature scendono al punto da gelarla nei tubi. L’unico modo per affrontare questo problema è prevenirlo: di solito, basta lasciar scorrere ininterrottamente un filo d’acqua, giorno e notte, per evitare il rischio di congelamento. Ma certe volte un filo d’acqua può non bastare. Lo abbiamo scoperto ieri mattina, quando ci siamo svegliati e l’incubo era diventato realtà. Nonostante i due rubinetti lasciati aperti per la notte, le temperature estremamente rigide hanno avuto la meglio sulle nostre povere condutture. Piuttosto in ansia abbiamo iniziato a fare telefonate, per cercare di capire come risolvere il problema. La prima doccia fredda (per restare in tema) è arrivata dall’idraulico. Se i tubi sono in plastica, non si può fare niente. Fossero stati in ferro, come quelli di una volta, bastava collegare una massa elettrica e scaldarli; in pochi minuti tutto tornava a posto. Neanche a dirlo, l’unica scintilla di modernità in una casa che ignora l’esistenza di doppi vetri, infissi degni di questo nome e del riscaldamento a gas, sono proprio i tubi in plastica. La seconda brutta notizia ce la danno i vicini, che come spesso accade sono venuti in nostro soccorso, potendo tuttavia solo confermare quanto già detto dall’idraulico: non c’è niente da fare. Rincarando la dose con il racconto di un amico cui era successa la stessa cosa ed era rimasto senz’acqua fino ad aprile. Aprile? Mancano due e mesi e mezzo ad aprile! Se anche i nostri angeli custodi non hanno soluzioni, siamo messi davvero male. L’ansia si è ormai trasformata in panico.

La nostra unica, debole e quasi illusoria speranza, è sparare aria calda in un punto, subito fuori dall’ingresso, dove i tubi emergono da sotto terra prima di entrare in casa, e sono quindi più esposti a subire gli effetti dell’aria gelida. Una specie di buco tra muro e pavimento, coperto alla buona con un lastrone di pietra, gommapiuma e pezzi di corteccia, dove passano pochi centimetri di tubi scoperti e il rubinetto di chiusura. Armati di prolunga, passiamo la mattinata a gettare aria calda nel buco con un phon, inginocchiati sul selciato gelido, dandoci il cambio di tanto in tanto per non ibernare. A mezzogiorno, dopo tre ore ininterrotte di phon, i nostri rubinetti sono aridi come il Sahara. Cerchiamo di vincere lo sconforto e ci organizziamo sul da farsi. Posizioniamo uno scaldino elettrico di fronte al buco, lasciando a lui l’ingrato ed eroico compito di alimentare la nostra sola speranza. Anche l’idraulico ci ha confermato che, alla lunga, potrebbe funzionare e ci ha consigliato di insistere, se necessario anche tutta la notte. A detta di tutti, la notte che inizia ad avvicinarsi è un po’ il punto di non ritorno: se non riusciamo a sbloccare la situazione in tempo, le temperature notturne faranno avanzare l’armata del ghiaccio fino a renderla invincibile. Il panico si sta rapidamente trasformando in disperazione. Iniziamo a fare avanti e indietro con la fontana della borgata, attenti a non scivolare sul lastricato ghiacciato, portando dentro casa secchi, pentole e bottiglie pieni d’acqua. Sembra di stare in guerra. La situazione diventa surreale quando ci ritroviamo a lavare i piatti alla fontana gelida, come si faceva un tempo. Almeno, tutto questo serve a farci vivere un piccolo assaggio della durezza della vita contadina di una volta.

Alle tre, quando il «picco» massimo delle temperature è stato raggiunto (-4 gradi, roba da uscire in terrazza a prendere il sole) e il freddo, quello vero, torna ad artigliare la terra, ci rendiamo conto che non c’è davvero più niente da fare. Seguendo le vaghe indicazioni del padrone di casa, perdiamo ancora un po’ di tempo alla ricerca di un fantomatico tombino, che potrebbe nascondere il punto dove il ghiaccio ha fatto presa sui tubi. L’ultima chimera a cui aggrappare le nostre speranze di una vita normale per i mesi a venire. Ma quel tombino resterà pura utopia: non lo troveremo mai. Rassegnati, ci chiudiamo finalmente in casa e ci apprestiamo a dare un parvenza di normalità a quella giornata, per non pensare ai disagi che ci toccherà sopportare nelle prossime settimane. Tiriamo fuori i computer per sbrigare un po’ di lavoro arretrato, gettando ogni tanto un’occhiata di frustrazione alla stufa che imperterrita continua ad alitare aria calda nel buco. E proprio in quel momento, il miracolo. Sono quasi le sei quando un gorgoglio generale rompe improvvisamente il silenzio, un rumore sordo che sembra salire dalle viscere della terra. Poi una bolla che si gonfia ed esplode e, infine, il suono più dolce che potevamo sperare di ascoltare: quello dell’acqua che scorre rabbiosa dai rubinetti spalancati! Quasi non riusciamo a crederci, ci guardiamo in faccia ed esultiamo come per un sei al superenalotto, con Virgola che ci gira intorno con le orecchie basse cercando di capire cosa ci è preso, prima di finire tutti e tre abbracciati a saltare come matti mentre i gatti ci guardano impassibili e assonnati, beatamente accoccolati nella cuccia accanto alla stufa. Che liberazione!

Quest’avventura, oltre a una giornata di panico, ci ha regalato un paio di insegnamenti pratici e una lezione morale. Un filo d’acqua non basta quando fuori fa meno venti. Nonostante pensi di essere preparato, la vita in montagna è sempre più dura di quello che ti aspetti. Ma è proprio la morale di questa storia che speriamo di portarci appresso per affrontare tutto quello che vorrà riservarci il futuro: mai, mai, mai, mai perdere la speranza.

Contatti / alritmodellestagioni@gmail.com