Maledetta fretta

Vi è mai capitato di incrociare lo sguardo con un animale che sta morendo?

Gli occhi spenti vi fissano senza realmente vedervi, il respiro è irregolare, il corpo scosso dai brividi. Si accuccia, nasconde la testa sotto il ventre facendosi sempre più piccolo, come a voler scomparire. È così che lo abbiamo trovato, ieri in tarda mattinata: un giovane capriolo steso sul bordo della carreggiata, solo, inerme, impaurito. Abbandonato a se stesso. Chi lo ha investito – una qualsiasi tra le centinaia di auto e moto che ieri, a ferragosto, si sono riversate in montagna – non ha avuto neanche la sensibilità e il buon senso di fermarsi per fare qualcosa. Di evitare, quantomeno, che l’animale in difficoltà potesse provocare altri incidenti.

«C’è un cervo ferito in mezzo alla strada», così ci dice Mauro chiamandoci al telefono, avvisato da un automobilista di passaggio. Un cervo, possibile? Penso tra me e me, mentre mi precipito fuori. Con tutta questa gente in giro i cervi se ne stanno in quota, a contendere i pascoli alle vacche in alpeggio. Li abbiamo avvistati qualche giorno fa, sfuggenti come fantasmi, nascosti tra macchie di larici ben oltre i duemila metri. «Vengo con te», mi urla dietro Matteo mentre salgo in macchina. Filmmaker di professione, Matteo è un amico romano in visita da qualche giorno e prima di seguirmi ha la prontezza di afferrare la piccola videocamera che custodiamo in posizione strategica, proprio accanto alla porta di casa. Sempre pronta per ogni evenienza.

Quando arriviamo il capriolo è li, accasciato appena oltre l’asfalto, immobile. La testa è alzata e le piccole corna lo identificano senza dubbio come un giovane maschio. Sembra vitale, il torace fa su e giù muovendo appena il mantello rosso fuoco. Fa sempre un effetto strano vedere i selvatici così da vicino quando sono feriti: non c’è mai, neanche lontanamente, l’emozione che si prova durante un avvistamento in natura. Al contrario, si percepisce nel contatto forzato tra noi e loro qualcosa di innaturale, di sbagliato. Ci teniamo per precauzione a qualche metro di distanza, per non spaventarlo ulteriormente e per non rischiare di scatenare una reazione aggressiva. Prendo il telefono e chiamo il 118, mi faccio passare il veterinario dell’ASL. Conosco già le procedure, dopo l’avventura dello scorso Primo Maggio, quando era stato il turno di una giovanissima capriola gravida di incontrare sul proprio cammino un cofano d’acciaio, lanciato a chissà quale velocità sui tornanti della stradina che si arrampica oltre la nostra borgata.

Il veterinario ha un tono che non mi piace, è evidentemente disturbato dalla chiamata. Per farla breve, mi dice chiaramente che, in caso di richiesta esplicita, lui è obbligato a intervenire. Ma lascia a me la facoltà di decidere se ritengo il suo intervento necessario oppure no, mettendocela tutta per farmi capire che l’animale tanto morirà comunque e che, in fondo, scomodarlo sarebbe solo una perdita di tempo. Per lui, che deve arrivare da Cuneo, e per me, che dovrei aspettarlo lì più di un’ora. Ovvio che aspetterei anche tutto il giorno, ma sono confuso perché il capriolo, nel frattempo, ha avuto un netto e improvviso peggioramento. Il respiro si è fatto affannoso e irregolare, ha piegato il collo e nascosto la testa contro il corpo, gli occhi ridotti a due fessure sempre più strette e buie. Le condizioni, adesso, sembrano disperate. Mi avvicino, lo tocco: nessuna reazione. A parte una specie di foro sulla schiena, che tuttavia potrebbe essere la cicatrice di una vecchia ferita, e un evidente trauma da impatto sulla palpebra destra, non riesco a scorgere altre lesioni. Ma i sussulti che scuotono l’animale e la sua totale passività lasciano poche speranze: non ho dubbi che stia morendo.

Ho un’idea. Dico al veterinario di aspettare, metto giù e chiamo gli amici del CRAS, il Centro Recupero Animali Selvatici di Bernezzo. Li abbiamo conosciuti pochi giorni fa, i ragazzi e le ragazze del CRAS, quando siamo andati a trovarli al Centro dove accudiscono mammiferi, uccelli, rettili e anfibi di ogni specie. Esemplari feriti, abbandonati o sequestrati dalle autorità in negozi e abitazioni private per maltrattamenti o per detenzione illegale di specie esotiche. Elisa mi dice prontamente di richiamare il veterinario e di richiedere ufficialmente il suo intervento: in un modo o nell’altro, è suo dovere fare qualcosa. Anche soltanto, eventualmente, intervenire per sopprimere l’animale con un’iniezione, risparmiandogli così inutili e prolungate sofferenze. Non sono certo io, infatti, a poter prendere decisioni in una situazione simile, né tantomeno a dover azzardare azioni di sorta, non avendo competenze né autorità in merito.

Lo dimostra il fatto che, dopo pochi minuti, il capriolo inaspettatamente riprende vigore, rovesciando di colpo la mia diagnosi. Tira su la testa, apre gli occhi, con uno scossone si libera del telo con cui gli abbiamo coperto gli occhi come misura necessaria per diminuirne lo stress. Cerca di alzarsi, con enorme fatica si tira su puntellandosi sulle zampe sottili, barcolla, e percorsi due metri si accascia contro un muretto di contenimento. Si agita, scalcia con foga cercando di rimettersi in piedi, ma il non riuscire a coordinare i movimenti lo getta ancora di più nel panico. Un capriolo, come 0gni selvatico, non possiede altro che il suo corpo, le sue gambe per fuggire i pericoli e restare vivo. Con un guizzo il giovane maschio trova la forza per alzarsi di nuovo, si guarda intorno confuso e inizia a sbandare verso il centro della carreggiata. Alessia e Matteo bloccano il passaggio di auto e motociclette, che in una lunga processione e ignare di tutto non smettono di rincorrere i loro picnic. Io, su indicazioni di Elisa che continuo a tartassare di telefonate, mi avvicino all’animale per gettargli nuovamente sopra il telo, così da renderlo cieco e costringerlo a fermarsi. Dobbiamo bloccarlo fino all’arrivo del veterinario, perché in queste condizioni, e con il traffico che c’è oggi, non avrebbe senso lasciarlo libero di andarsene in giro.

Lentamente gli appoggio sulla testa il telone militare, a mo’ di coperta, ma il fagotto scarta di lato e crolla rovinosamente a terra. Il capriolo si scuote il telo di dosso e si rialza per la terza volta. Si muove goffamente, cercando una coordinazione che non riesce a trovare. Tira su le zampe anteriori in modo esagerato, ritmicamente, come un soldato in parata che scandisca con enfasi ogni singolo passo. Un movimento che ho visto fare ai caprioli altre volte, quando sono nervosi, o arrabbiati. Come lui, anche noi non sappiamo più cosa fare, se abbrancare in qualche modo l’animale o lasciarlo andare, cercando magari di indirizzarlo lontano dalla strada. Il capriolo ci toglie rapidamente dall’impasse: in equilibrio precario piroetta su se stesso, poi prende l’unica via possibile, verso il ruscello che scorre sotto la strada. Lì sotto, proprio a lato della striscia di asfalto, c’è una pozza alimentata da una cascatella d’acqua sorgiva. Una specie di minuscolo laghetto incastonato tra le rocce, che a vederlo così, adesso, sembra un piccolo angolo di paradiso. Di quelli che ci passi davanti mille volte ma non ci fai mai caso, finché qualcosa non ti spinge a guardarli davvero. Il capriolo si muove nell’acqua come in un sogno, alzando di tanto in tanto la testa coronata, trasformando la scena in una visione surreale, incantata.

Lo teniamo d’occhio dalla strada per mezz’ora buona, mentre vacilla un paio di metri più in basso, sguazzando nella pozza come un animale in trappola. Si tiene appena in piedi, ma cerca comunque, con commovente ostinazione, di arrampicarsi sulla ripa scoscesa. Le pareti di pietra che circondano la pozza sono ripide, e rappresentano tuttavia un ostacolo che un capriolo giovane e in salute eluderebbe senza difficoltà con un paio di balzi. Ma lo sfortunato animale, in queste condizioni, non ha vie di fuga.

Il veterinario chiama di nuovo per chiedere indicazioni, è a pochi chilometri eppure non lo vediamo arrivare. Cerchiamo di non attirare l’attenzione dei passanti per risparmiare altro spavento all’animale ed evitare una fuga pericolosa, ma finisce inevitabilmente che qualcuno si fermi e alcune persone si affaccino per guardare oltre il parapetto. Il capriolo, innervosito da tante attenzioni, scompare sotto il ponte e sbuca dall’altra parte, sulla piattaforma di cemento dove scorre l’acqua. Una specie di grosso tubo che passa sotto i nostri piedi, alla fine del quale, ad attenderlo, c’è un salto nel vuoto di almeno due metri. Immagino di vederlo fermarsi sul bordo, guardare di sotto e tornare indietro sui propri passi. Ma lui, troppo stordito, si accorge del baratro solo quando i suoi zoccoli calpestano l’aria. Troppo tardi. Precipita giù senza un lamento, e lo vediamo schiantarsi di fianco su una roccia piatta prima di rotolare pesantemente nell’acqua bassa. Temiamo il peggio. Miracolosamente, invece, il capriolo è tutto intero, anche se visibilmente in difficoltà.

Prima che arrivi il veterinario, ha ancora il tempo e le forze per spingersi qualche metro in avanti lungo lo stretto canale dove scorre il ruscello, scivolando su pietre appuntite e cercando in tutti i modi di guadagnare un punto più stabile. Quasi scompare dietro le fronde degli aceri che ricoprono le rive, mentre noi cerchiamo di non perderlo di vista. Finalmente, preceduto da una scorta non richiesta di motociclisti in assetto da sbarco lunare, il furgone bianco della ASL sbuca da dietro la curva. Il veterinario non smentisce il tono della telefonata, e invece di darsi da fare inizia a chiedere a noi, con un tono tra lo scocciato e il sarcastico, cosa vogliamo che faccia lui adesso, con il capriolo ormai impossibile da raggiungere. Proviamo a spiegargli che non spetta a noi decidere, che il capriolo in quelle condizioni è un pericolo per tutti, ma è evidente che il suo maggiore interesse, al momento, è trattarci come imbecilli e farci capire quanto sia stato inutile farlo arrivare fin quassù.

Per fortuna con lui, alla guida del furgone, è arrivato l’addetto al recupero, un omone gentile che ci saluta con cordialità, si fa indicare dov’è l’animale, e senza perdere un secondo si infila sul retro dell’automezzo per uscirne con in mano delle corde e un grosso contenitore rettangolare. Senza che ce ne accorgiamo, mentre siamo ancora impegnati a mandar giù gli sproloqui senza senso del veterinario, l’altro ha già raggiunto il capriolo, lo ha immobilizzato, bendato, e afferrandolo per le zampe come fosse un peluche cerca di infilarlo nel baule. Cerco il modo di raggiungerlo per aiutarlo, ma mi blocco impaurito di fronte alla ripa troppo ripida, completamente sepolta sotto uno spesso tappeto di rovi e ortiche. Torno a testa bassa a guardare la scena dal ponte, e non posso che provare una sconfinata ammirazione osservando l’uomo arrancare nel ruscello in pantaloncini e ciabatte, le gambe sanguinanti, mentre solleva il contenitore col capriolo dentro e avanzando con fatica cerca di raggiungere la riva opposta.

Lo aiutiamo con le corde a sollevare il baule sulla strada, poi anche lui si tira su, mantenendo una calma olimpica nonostante i commenti fuori luogo del veterinario, che nessuno dei presenti, in realtà, sta più ascoltando da un pezzo. Il capriolo è adagiato nel contenitore in plastica, sottosopra, con gli occhi coperti da una piccola benda nera. Non accenna a muoversi, e per adesso è meglio così. L’uomo che lo ho portato fin qui, che ai miei occhi ha già assunto le sembianza di un eroe omerico, ha ancora l’accortezza di svuotare il contenitore dall’acqua che terrebbe il capriolo al gelo, prima di infilare tutto nel vano di carico e rimettersi alla guida.

L’altro compila qualcosa che dovrebbe essere un rapporto, scrivendo a penna su un foglio rimediato, appoggiandosi sul cofano della mia auto. Chiedo senza sperarci troppo se posso avere anch’io un pezzo di carta che attesti l’avvenuto recupero, magari un documento ufficiale come mi è stato fornito la volta scorsa, visto che al 118 ho lasciato il mio nome e cognome. Lui, com’era prevedibile, borbotta che non mi servirebbe a nulla, prima di salutarci con il solito sarcasmo, congratulandosi con noi in modo ironico per il successo dell’operazione. Mentre stringo la mano all’addetto al recupero e i due prendono posto sul furgone, uno di fianco all’altro, non posso fare a meno di notare quanto siano fisicamente vicine, in questo momento, le più alte cime e le profonde bassezze che può raggiungere lo spirito umano.

Così, oggi siamo di nuovo qui, in attesa di ricevere notizie dal CRAS, confidando nella loro professionalità e certi che faranno tutto ciò che sarà umanamente possibile per salvare il capriolo e, se possibile, rimetterlo in libertà dopo le cure adeguate. Incrociamo ancora una volta le dita, sperando che, stavolta, arrivino buone notizie.

Ci sono almeno due ragioni per cui abbiamo deciso di pubblicare questo post.

La prima è ringraziare pubblicamente i CRAS e gli addetti che si occupano di effettuare i recuperi dei selvatici in difficoltà, nonché, come testimoniato dalla nostra esperienza, a mettere in sicurezza tutti noi, intervenendo laddove le autorità competenti si dimostrano scarsamente interessate a farlo. Il loro è un lavoro difficile e a volte pericoloso, ma le persone che abbiamo conosciuto lo svolgono con amore, impegno e professionalità, per lo più a titolo volontario. Con la loro passione cercano ogni giorno di tappare le falle di un sistema che non li aiuta affatto, dovendosi districare tra enormi difficoltà logistiche, organizzative, burocratiche e, soprattutto, con la cronica mancanza di fondi. Le donazioni sono ciò che li tiene in vita: anche piccole somme possono contribuire a migliorare le condizioni di vita degli esemplari accuditi nel centro.

In secondo luogo, abbiamo scelto consapevolmente di filmare il capriolo in una situazione drammatica proprio per documentarne la sofferenza, perché in quei momenti non c’era nulla che potessimo fare e perché speriamo che queste immagini e questo racconto possano sensibilizzare automobilisti e motociclisti a usare particolare prudenza quando si avventurano in zone selvagge, solitamente deserte, in quelli che per loro sono luoghi di svago e relax temporaneo, ma che per altri – selvatici, domestici e persino qualche umano – sono la casa di tutti i giorni.


AGGIORNAMENTO

Purtroppo il capriolo non ce l’ha fatta. Siamo senza parole, sognavamo il momento in cui avrebbe ritrovato la libertà, invece siamo di nuovo qui a ingoiare un boccone amaro. A piangere l’ennesima vittima innocente della nostra arroganza e della nostra fretta, quella maledetta fretta che ormai ci portiamo appresso ovunque, anche nei giorni di festa. Quella maledetta fretta con cui stiamo avvelenando il mondo, e le nostre stesse vite.

3 commenti
  1. Elena
    Elena dice:

    Sono assolutamente d’accordo con voi, la fretta che guida gli automobilisti, il non rispetto delle norme stradali, il non rendersi conto che guidano un mezzo che può diventare un’arma pericolosa sono le cause di quasi tutti gli incidenti stradali

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Contatti / alritmodellestagioni@gmail.com